21.7 C
Pordenone
martedì , 22 Luglio 2025

Molchat Doma, la casa sarà anche silenziosa, ma quanto pompa!

SESTO AL REGHENA – “Molchat Doma” in russo significa qualcosa tipo la casa è silenziosa. Un nome che promette quiete, introspezione, forse qualche pianto sommesso su un tappetaccio consunto e polveroso, tra nude pareti e linoleum, mentre fuori nevica e i lampioni illuminano fiocamente le strade tra i palazzoni brutalisti e dentro ci si abbandona alla malinconia. E invece: sorpresonaa! A Sesto al Reghena, nell’incanto dell’Abbazia, la casa silenziosa si è trasformata in una discoteca industriale bielorussa, e i muri hanno tremato ben più delle nostre certezze esistenziali.

Sexto Unplugged, manifestazione musicale di grande qualità che quest’anno giunge fresca freschissima alla ventesima edizione, conferma la sua ineffabile aura di boutique festival (anche se un po’ di “unplugged” ce lo siamo giocati strada facendo…): niente fronzoli superflui, una cura per i dettagli maniacale, un ambiente ludico-musical- culturale bello, funzionale, vivo e attivo (la parte denominata “Lounge” contigua al cortile dell’Abbazia è anche a ingresso gratuito!) Ogni volta la user experience davvero ci fa vivere come dei fruitori privilegiati e ci fa sembrare ogni concerto non solo una performance artistica ma anche un vissuto sia intellettuale che musicale (e finito il concerto poi se vuoi rimanere per un po’ di chill-out c’è sempre un dj set di qualità con birrette e gintonic!)

Anche questa volta, con i cazzutissimi Molchat Doma, la regola non ha conosciuto eccezioni. Il cortile dell’Abbazia si è trasformato in un vortice di synth cupi, luci intermittenti e di sudaticcia e nichilisticamente liberatoria danza esistenziale collettiva.

Il trio bielorusso (from Minsk! Vivono da anni a Los Angeles ma non vogliono che si sappia per motivi di immagine… Come biasimarli, se avessi la possibilità di emigrare non te ne andresti via anche tu dalla grigia e autocratica Minsk?) — Egor Škutko alla voce profonda da poeta maledettaccio e disilluso, in finissimi bermuda e canotta neri con calzino nero in filo di scozia e… reggicalzini da gentleman consumato, Roman Komogorcev alla chitarra riverberatona e drum machine che spacca, Pavel Kozlov al basso e synth geniali e chirurgici— ci ha regalato quasi due ore di live impeccabile, cupo, coinvolgente, e sorprendentemente… divertente e rinfrancante.

Sì, perché nonostante i toni da fine del mondo post soviet, i loro brani riescono a trasformare la desolazione in dolceamara energia pura. Una sorta di post-punk dopato e pop-ato… che ti prende dolcemente e mestamente per mano e però ti da anche uno schiaffone in faccia facendoti scendere una lacrimuccia ma subito arriva uno shottino di vodka da due rubli che ti sballa e ti fa godere di brutto mentre con voce profondissima e cavernosa ti dice: “La vita una merda, ma almeno balliamoci sopra”.

La scaletta ha pescato a piene mani dalla discografia più amata e sofferta del trio: da “Etazhi” (l’album che li ha sparati fuori dagli scantinati dei palazzoni brutalisti dei sobborghi di Minsk grazie all’algoritmo di YouTube), ai successi virali come il finale “Sudno (Boris Ryzhyi)”, fino alle tracce più recenti e raffinate di “Belaya Polosa”, che con i suoi bagliori di produzione internazionale e synth levigati dimostra che sì, i Molchat sanno anche evolversi senza vendersi l’anima (grigia).

Tra una “Diskoteka” da pogo metafisico e una “Toska” che pare scritta per ballare mentre si pensa al senso della vita, la band ha alternato pezzi tiratissimi a momenti più riflessivi, senza mai cadere nella trappola del déjà-vu.

Certo, i riferimenti a Joy Division, Depeche Mode, Kino e Clan of Xymox restano evidenti come un murales di peni giganti disegnati sulle mura del Cremlino, ma posso tranquillamente affermare non ce ne importa un synth! La derivatività qui è una cosa viva, non manierista, è stile, linguaggio, citazione, affetto. Non copia, ma culto.

Il folto pubblico che occupava comodamente circa 4/5 del cortile abbaziale spaziava dai 16 ai 60 anni a prova e dimostrazione che quando ci metti (un po’) di anima le risposte arrivano.

Egor, nel suo succitato completo diversamente elegante e movenze ipnotiche da frontman sovietico sotto acidi (o sotto Dostoevskij), domina effettivamente il palco come un decadente e sbracciante crooner di fine regime, mentre il pubblico pluri-età si lascia travolgere da ogni nota, senza capire una parola (a meno che tu non abbia fatto l’erasmus a Togliattigrad o eri iscritto al PCI nel 1974), ma sentendole tutte con il cuore, con le mani e con il… ciao ciao.

Perché i Molchat Doma non si ascoltano con le orecchie, ma effettivamente con il diaframma e con i pensieri oscuri. La loro musica è un mieloso abbraccio gelido che consola, è l’ambrosia di un battito che vibra più nel petto che nelle casse.

Tra le chicche in scaletta: “Ne Vdvoem”, “Kletka”, “Na Dne”, “Obrechen”, “Beznadezhnyy Waltz”, e le inedite “Son” e “Tri”, accolte con entusiasmo da un pubblico sudaticcio, estatico e in pieno trasporto emozionale e terapeutico. Il tutto accadeva in diretta davanti ai nostri occhi sotto le stelle del delizioso Friuli orientale, tra le pietre millenarie del borgo, il Sacro e il Synth si sono abbracciati per una notte leggera e a suo modo indimenticabile.

E poi, dopo quasi due ore irreprensibili arriva il gran finale: “Sudno”, che sicuramente conoscete se frequentate TikTok e Instagram perchè è usatissima come colonna sonora. Ma sorpresissima!; non è nella sua versione malinconica, consolatoria e sospirata da pioggia sul parabrezza e pianti liberatori sul divano con il plaid e il gatto che ti fissa interdetto. NO.

Qui “Sudno” è diventato un delizioso e sferragliante mostro industrial-techno berlinese a 160 bpm, una cavalcata sintetica che ci ha preso per la collottola e scaraventati a calci nel sedere in pista come se il cortile dell’Abbazia fosse il mitologico Panorama Bar del Berghain. Un’esplosione finale di sudore, beat, ballo sfrenato e beatitudine, che ci ha lasciati appagati e sereni e freschissimi, come un angelo sterminatore che nel suo giorno libero si rilassa andando a pesca di temoli sulle rive del Reghena. E mentre i synth svaniscono nell’umidità notturna, una sola certezza rimane: la casa sarà anche silenziosa, ma i Molchat Doma suonano così forte che ce li ricorderemo per un bel pezzo.

Poi Sexto Unplugged continua il 4 luglio con BLACK COUNTRY, NEW ROAD, il 5 luglio con ANNA VON HAUSSWOLFF; e il gran finale il 6 luglio con i BAUSTELLE

Pasqualino Suppa

Ultime news

Ultimi articoli