L’inflazione USA in calo, borse su; listini azionari, oro e bond in rialzo, debolezza per Dollaro e petrolio

MERCATO AZIONARIO

I forti segni più visti nell’ultima seduta della scorsa settimana lasciavano presagire che le borse non avevano ancora concluso il loro slancio rialzista. Una progressione quasi verticale, nata da un mix di pessimismo e scetticismo che ha fornito il terreno fertile per rapidi cambi di operatività per gli investitori, prima preoccupati di vedere nuovi minimi dopo quelli di ottobre e poi obbligati a rincorrere una tendenza di segno opposto. Potenza degli algoritmi (e del leverage) che riescono ad amplificare i movimenti, lasciando increduli gli operatori di fronte a cambi di sentiment così rapidi. L’innesco è però stato rilevante per l’attuale modo di pensare delle borse e ha riguardato il binomio sotto osservazione da tutto il mondo, ossia la tendenza dell’inflazione e del mercato del lavoro USA. L’uno e l’altro, nelle ultime settimane, hanno dato sostanziosa manforte a quella parte del mercato che reputa ormai archiviata l’inflazione record degli ultimi due anni, accettando di buon grado, se quello è l’obiettivo, anche una diminuzione di velocità della crescita economica. Con quest’ultimo step si dovrebbero infatti moderare consumi e stipendi, evitando pericolose spirali nei prezzi e riportando il quadro macro entro dei binari desiderati dalle autorità monetarie e anche dalla politica. L’ottimismo di mercato si traduce in segni ancora positivi per le borse (MSCI World nella settimana +3%) ma anche per le obbligazioni, dove il calo dei rendimenti è stato generalizzato. Il mercato, quindi, cede alla tentazione (a dire la verità come già successo più volte negli scorsi 18 mesi) di guardare avanti e vedere positivo. C’è da chiedersi cosa ne penserà Powell e soprattutto se il quadro macro/fondamentale sarà favorevole.

L’S&P 500 (+2,3% nella settimana) mette in chiaro che la sequenza di massimi decrescenti visti da fine luglio (4.800/4.530/4.400) è archiviata, almeno dal punto di vista della tendenza.  Eventuali fasi di ripiegamento momentanee potrebbero essere “salutari” (fisiologiche). Un esercizio tecnico può stimare in un 2-3% un movimento di retest in area 4.380-4.400; più in basso non sarebbe un dramma (4.320) ma le ultime dinamiche di mercato hanno mostrato che il centrocampo è ancora in mano ai rialzisti. Le considerazioni sono simmetriche per l’altro indice USA, il Nasdaq 100, con la differenza che l’impetuosità del movimento ha già portato le quotazioni ad un passo dai massimi annuali (area 16.000) ma anche ad un passo dai primi segnali di ipercomprato. Evidente il ruolo di spinta che hanno avuto le grandi capitalizzazioni tech nel produrre il +12,5% dai minimi fatti segnare dall’indice tecnologico dai minimi di fine ottobre.

L’Europa era a credito, in termini di performance, rispetto a Wall Street e questa settimana ha cercato di riportarsi in scia alle lepri statunitensi: il paniere generale sale, infatti, del 2,9% e le spinte principali sono arrivate da Dax e FTSE Mib, quest’ultimo sospinto ancora dai bancari. Ancora bene il Giappone che, assieme all’India, sembra potersi avvantaggiare delle difficoltà cinesi: il listino nipponico è secondo solo al Nasdaq, tra gli indici sviluppati, come performance 2023. A livello di settori e temi: rimbalzano con forza i comparti legati alle commodities, ma fanno bene anche quelli legati ai tassi come le utilities. Meno tonici solo Staples (consumi) ed Energy.

La stagione delle trimestrali volge alla conclusione: il risultato ormai definito del 3Q, se comparato con lo stesso periodo dello scorso anno, segna un +3,9% e mette sul percorso giusto anche le previsioni per il prossimo trimestre (atteso +3,8%). La settimana macroeconomica si è focalizzata sull’inflazione USA: tutti i dati sono risultati sotto le attese (+3,2% vs +3,3%, con la versione ‘core’ a +4,1% vs 4,2%). I livelli non sono ancora quelli che vorrebbe la Fed ma la lettura del mercato è stata quella di credere ad un happy ending entro la prima parte del prossimo anno, con la banca centrale americana nelle condizioni di essere meno restrittiva.

MERCATO OBBLIGAZIONARIO

Viste le dinamiche sia dei mercati azionari ma soprattutto di quelle obbligazionarie, si è capito che i mercati non credono più al posizionamento ancora restrittivo mostrato invece dalla Fed.  E la discesa di ottobre ha forse fatto capire (con l’intermezzo umanamente infelice della ripresa del conflitto in Medio Oriente) che certi livelli non sono coerenti con la stabilità generale del mercato finanziario. Ovvio che ad intervenire sono anche altre dinamiche, di natura più prospettica e inerenti soprattutto alla crescita del debito nei paesi sviluppati, alimentato da un generalizzato ricorso al deficit (la politica monetaria resta restrittiva quasi ovunque). Sono problematiche che non spariscono dall’oggi al domani ma per le quali è più la percezione di mercato a contare, quando soprattutto quest’ultimo vuole mandare dei messaggi a destinatari precisi: alla Fed per mettere fine ai rialzi dei tassi e alla politica per mettere un freno agli eccessi di spesa.

Il decennale americano, dopo il picco in area 5% ad ottobre, ha intrapreso una fase distensiva, con i valori scesi a quota 4,50%: un movimento similare a quanto visto nel 2022 e che può portare a valori meno caratterizzati da tensione, con l’estensione ipotizzabile anche fino quota 4%-4,30% e l’avvio di una fase interlocutoria, in attesa di vedere il prossimo round nella diatriba mercato/banche centrali. Il dato di inflazione ha dato l’assist al primo di stimare un taglio dei tassi già a marzo 2024: eh sì, il lavoro sarebbe definitivamente concluso e quello di marzo sarebbe solo il primo di 4 riduzioni (da 0,25%) fino alla fine dell’anno (si andrebbe dall’attuale range 5,25%-5,50% a 4,25%-4,50%). Da questa svolta si comprende come mai su azionario e obbligazionario le due ultime settimane siano state così rapide nei movimenti. Il tasso a 2Y USA ne prende atto e avvia una correzione (4,88% al momento). Questo quadro si trasmette poi anche al Vecchio Continente, dove la BCE si muoverebbe in sincrono, riducendo i tassi a marzo per la prima volta e arrivando a fare anch’essa 3/4 tagli nel 2024. I mercati, evidentemente, dovranno trovare la sintesi tra questa view e quella di economia che rallentano ma senza gravi downside. In chiusura di mercati è arrivata anche la sentenza di Moody’s sul debito italiano: non solo l’agenzia non taglia il rating ma invece alza l’outlook (a stabile da negativo), segno che, per ora, la tensione sul debito italiano resta ben controllata.

Buoni i guadagni su tutti i segmenti obbligazionari: dal governativo (specie le lunghe scadenze) al corporate, sia di matrice investment grade che high yield. Il declino dei rendimenti è stato generalizzato e porta sollievo ad un’asset class che dopo un 2022 problematico, vede un 2023 su risultati migliori rispetto ad un solo mese fa. In calo anche spread di credito e tassi reali.

MERCATO DELLE MATERIE PRIME

Andamento contrastato per i vari comparti di materie prime: vola di nuovo l’oro (+2% a 1.980$) grazie al calo dei tassi reali e alla debolezza del Dollaro USA. Sempre tra i preziosi, forte rimbalzo, dopo la precedente settimana nera per argento, platino e palladio. In discesa il petrolio (-1,7%, 76$) dopo i dati di produzione USA. Senza particolare direzione metalli industriali e materie prime agricole.

MERCATO DELLE VALUTE

La costruzione rialzista dell’Euro-Dollaro spinge il cross fino a quota 1,09, con la valuta statunitense che perde il 2%! Lo smussamento deciso sulle intenzioni future della Federal Reserve riduce i differenziali nelle politiche monetaria di USA ed Eurozona.

Dott. Alessandro Pazzaglia, consulente finanziario indipendente, www.pazzagliapartners.it




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