Previdenza giornalisti, profondo rosso da – 253,9 milioni di euro
FVG – Un profondo rosso da -253,9 milioni di euro in deciso peggioramento rispetto al 2019 e una riserva tecnica ridotta: 2 annualità nel 2020 e 1,63 nel 2021. Sono questi i drammatici numeri della Gestione sostitutiva dell’Ago dell’Inpgi comunicati al Consiglio generale del 5 novembre. Purtroppo, e questo è davvero fonte di grande preoccupazione, non esiste un piano di rientro per migliorare i conti dell’Istituto se non quello di tentare di anticipare l’ingresso dei cosiddetti “comunicatori” (previsto nel decreto Crescita del 2019) dal 2023 al 2021.
Svalutazioni in aumento
Non va per niente bene neanche sul fronte delle svalutazioni che arrivano a un totale di 16,1 milioni di euro, di cui 5 milioni di crediti inesigibili (previsti nel preventivo) e 11,1 milioni per la svalutazione di due fondi immobiliari, il Fondo Giovanni Amendola (per 9,3 milioni) e il Fondo Synergia (per 1,8 milioni).
La tegola delle imposte arretrate
Un’altra tegola è arrivata anche sul fronte delle imposte. Come spiegato nella relazione al bilancio, c’è una spesa per imposte arretrate per 24,75 milioni, conseguenza di una cartella esattoriale sulle tasse 2014: l’Agenzia delle entrate ha improvvisamente cambiato la sua costante interpretazione di una legge del 1994 contestando all’Inpgi l’irregolarità di aver applicato l’aliquota Ires (ex Irpeg) al 50%, come peraltro fatto per 26 anni. L’Inpgi ha raggiunto un accordo per il pagamento della sola imposta non versata, senza sanzioni. Lo stesso accordo dovrebbe essere raggiunto per gli anni successivi fino al 2018 e a questo fine è stato costituito un relativo fondo.
La riserva tecnica scesa a meno di 2 anni
Il bilancio di previsione approvato a maggioranza con 40 voti a favore, 14 contrari e 6 astenuti aveva in precedenza ricevuto in consiglio di amministrazione il voto contrario del rappresentante del Ministero del lavoro. Dal documento emerge, infatti, l’ulteriore diminuzione del patrimonio che costituisce la riserva tecnica, garantendo – al momento – l’erogazione delle pensioni per 1,67 anni sempreché l’ente non incassi nulla di contributi.
Se da un lato mancano gli interventi richiesti dal governo all’istituto per ridurre le spese e aumentare le entrate entro il 30 giugno 2020, dall’altro la situazione è anche – ma non solo – peggiorata grazie ai prepensionamenti varati dal governo e dal Parlamento a fine 2019 senza una concreta e seria opposizione. Con l’emergenza Covid, la crisi strutturale dell’editoria che si trascina da più di 10 anni e i decreti che si sono succeduti la scadenza di giugno è stata posticipata a fine dicembre, quando però per l’Inpgi 1 finirà la copertura anti-commissariamento (l’Inpgi 2 naviga invece a gonfie vele e con le casse piene). Un commissariamento che sarebbe la drammatica conclusione di una discesa ormai inarrestabile senza concreti interventi su più fronti.
Una crisi che parte da lontano
Con la legge Rubinacci del 1951 l’Inpgi divenne Ente sostitutivo dell’Inps per quanto riguardava i giornalisti. Questa legge è tuttora in vigore dopo 69 anni e l’Inpgi 1 rappresenta un unicum nel panorama italiano delle casse previdenziali privatizzate. Una indubbia garanzia di autonomia della categoria a tutela e della propria indipendenza, che però assegnò all’Istituto il compito di erogare direttamente la cassa integrazione, i contributi figurativi, il trattamento di fine rapporto in caso di fallimento, il trattamento di disoccupazione (peraltro più elevato di quello dell’Inps) ed altri ammortizzatori sociali. Il problema, purtroppo, con il passare degli anni è venuto a galla perché questo tipo di trattamenti all’Inps vengono ristorati dallo Stato, mentre all’Inpgi no. Naturale che con la crisi dell’editoria e il rincorrersi di prepensionamenti, scivoli ed altro ancora il credito dell’Istituto nei confronti dello Stato è ormai di centinaia di milioni di euro. Un ristoro che per equità rispetto a quanto avviene con l’Inps, va rilevato e sostenuto a tutti i livelli e potrebbe essere inserito nel Recovery Fund.
Allargamento, comunicatori e dubbi
Se da un lato l’allargamento ai comunicatori potrebbe essere percorso, lo stesso non può essere considerato l’unica via di uscita, anche perché c’è il concreto rischio che i comunicatori non accetteranno di passare a un istituto in difficoltà senza chiedere varie garanzie, anche di partecipazione alla governance. Tema, questo, che va affrontato, visto e considerato che il patrimonio dell’Inpgi, nella Gestione principale e in quella separata, fino ad ora è stato costituito solamente dai contributi dei giornalisti e da nessun altro.
C’è chi in Consiglio generale ha provocato con la proposta di ridurre del 30% le pensioni, chi ha auspicato il passaggio all’Inps, chi invece con maggiore coerenza e maturità e in risposta ai ministeri che hanno richiesto degli interventi seri di miglioramento dei conti, ha proposto di stilare un piano unitario di rientro, senza logiche di maggioranza e opposizione che mal si adattano a questa drammatica emergenza della nostra previdenza.
Serve una azione unitaria della categoria
Di conti e numeri in questi giorni se n’è parlato molto, a volte in maniera parziale, a volte in modo estremo. Quello che serve è una azione unitaria all’interno della categoria e in particolare dell’Inpgi, della Fnsi e dell’Ordine a tutela della professione. L’ho già rilevato sia nel Consiglio generale di luglio votando a favore del piano di allargamento della presidente dell’Inpgi, Marina Macelloni ma con una serie di precisazioni a garanzia dei giornalisti e della loro indipendenza rispetto a una estensione della platea contributiva ai professionisti della comunicazione, sia nella commissione Occupazione e quindi nel Consiglio della scorsa settimana.
E ’necessario dare mandato ai fiduciari regionali per realizzare una verifica su ruoli e posizioni contributive dei colleghi in questo momento operativi. Non si può più aspettare. Partiamo dai numeri. Da uno studio del Senato della Re-pubblica del giugno 2017 emerge che in Italia esistono 10.769 amministrazioni pubbliche e oltre 10 mila società partecipate, mentre al momento i giornalisti iscritti all’Istituto che svolgono attività di ufficio stampa solo nella Pubblica amministrazione (Pa) sono circa 3 mila. E a tutto ciò si aggiungono le posizioni dei giornalisti all’interno delle realtà private. Tutti colleghi iscritti all’Ordine dei giornalisti, ma la cui attività lavorativa, seppure giornalistica, non viene riconosciuta dal punto di vista contributivo.
Vanno intercettate le posizioni contributive errate
Ne consegue che sono da intercettare centinaia di colleghi che fanno i giornalisti, ma con i contributi previdenziali versati all’Inps o ad altri Istituti di previdenza. Su questo aspetto, va fatta una azione comune per definire queste posizioni prima dell’apertura solo ed esclusivamente ai cosiddetti “comunicatori”. Una azione che deve essere di maggiore tutela per i giornalisti, una tutela che sembrerebbe messa in discussione da alcuni passaggi del documento prodotto dal Gruppo di lavoro sulla Riforma della comunicazione pubblica e Social media policy nazionale.
Situazione frutto di leggi inapplicate
Chi lavora negli uffici stampa pubblici e privati è ben consapevole del disinteresse sulla applicazione della legge 150/2000, quella che ben venti anni fa doveva consentire l’ingresso degli addetti degli uffici stampa nel perimetro previdenziale dell’Inpgi. Il testo di riforma prevede la creazione di un’area dedicata alla comunicazione, all’informazione e ai servizi alla cittadinanza. E ’interessante andare a leggere i dieci punti inseriti nel documento. Quello che però mi preme porre in evidenza è il punto numero 7, quando si parla di formazione qualificata quale requisito all’accesso ai ruoli. Ebbene su questo tema le Associazioni stampa e l’Ordine dei Giornalisti devono essere più puntuali.
Quando si parla dell’area unificata (quindi, informazione e comunicazione) si afferma che il responsabile deve possedere una formazione specifica sul modello di quanto previsto dal Dpr 422/2001. Un modello, questo, prevalentemente spostato su una formazione nel settore della Comunicazione. Ovvero viene preso come riferimento un Dpr del 2001, diciamocelo pure, datato come la 150/2000, che non prende in minima considerazione la formazione permanente diventata obbligatoria dal 2014 per gli iscritti all’Ordine dei giornalisti.
Va dato un valore alla formazione obbligatoria
I giornalisti dal 2014 seguono corsi di formazione su tematiche relative sì alla deontologia (peraltro fondamentale per chi si occupa di informazione e comunicazione), ma soprattutto alla comunicazione, ai social media, wordpress, digital reputation, personal brandig e chi più ne ha più ne metta.
Chi oggi lavora negli uffici stampa si occupa anche della gestione delle attività di comunicazione, dei social media e di tutte le attività connesse all’informazione e alla comunicazione.
Andare a porre il Dpr 422/2001 come testo di riferimento per la definizione delle posizioni è un grave errore che creerà giornalisti di serie A e giornalisti di “serie B”. Ovvero un giornalista con una laurea in Comunicazione, pubbliche relazioni o similari, come peraltro un master in Comunicazione avrebbe accesso alle posizioni apicali rispetto a un giornalista con una laurea in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economia ecc. che comunque ha svolto per anni anche il ruolo del comunicatore e si è formato su queste attività attraverso i corsi di formazione permanente dell’Ordine dei giornalisti o di Enti terzi riconosciuti dall’Odg stesso.
Ebbene, su questo le Associazioni sindacali e l’Odg devono essere fermi nel tutelare i giornalisti nel loro complesso, prevedendo magari una moratoria di qualche anno prima dell’applicazione della legge, nel far valere la formazione obbligatoria professionalizzante quanto le attività di formazione previste nel Dpr 2001. Solo così si potrà avere un equo trattamento sia professionale che previdenziale.
Andrea Bulgarelli
Consigliere generale e Fiduciario Inpgi Fvg