Giornate Cinema Muto, dal 5 al 12 ottobre nel segno del western

PORDENONE – Si è svolta questa mattina, 25 settembre, a Pordenone la conferenza stampa di presentazione della 43a edizione delle Giornate del Cinema Muto. Sono intervenuti il Vicepresidente della Regione Friuli Venezia Giulia Mario Anzil, il Sindaco reggente del Comune di Pordenone Alberto Parigi, il Sindaco di Sacile Carlo Spagnol e i rappresentanti della Fondazione Friuli e della Camera di Commercio di Pordenone-Udine che sostengono il festival. Il direttore delle Giornate Jay Weissberg ha presentato il programma alla stampa, al pubblico e alle autorità presenti.

Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone sono un appuntamento imprescindibile per gli appassionati di cinema. Dal 5 al 12 ottobre il Teatro Verdi diventa il luogo in cui si rinnova la meraviglia della visione di film dei primi decenni del secolo scorso, in copie restaurate provenienti da archivi e cineteche di tutto il mondo. Ad accrescere il fascino e l’attrattiva del festival diretto da Jay Weissberg, tutte le proiezioni sono accompagnate da un commento musicale eseguito dal vivo da singoli pianisti, gruppi e negli eventi di apertura e chiusura da orchestra. Grazie alla collaborazione con MYmovies, anche quest’anno le Giornate saranno in streaming con una selezione di film accompagnati dai pianisti del festival.

GLI EVENTI SPECIALI
È tradizione che l’evento di pre-apertura, venerdì 4 ottobre, avvenga a Sacile, in ricordo dell’ospitalità data da questa città negli anni in cui il festival si trasferì da Pordenone per i lavori di restauro del Verdi. Il film scelto quest’anno per la proiezione al Teatro Zancanaro, che viene replicata al Verdi di Pordenone giovedì 10 ottobre, è una commedia brillante interpretata da Harold Lloyd, Girl Shy (Le donne… che terrore), del 1924, diretta da Fred Newmeyer e Sam Taylor, che viene presentata con un nuovo accompagnamento musicale composto dal giovane musicista olandese Daan van den Hurk e affidato alla pordenonese Zerorchestra. Negli anni Venti del Novecento Harold Lloyd era una delle star più popolari di Hollywood e, nello spirito del tempo, impersonificava l’americano virtuoso e ottimista. Anche con la motivazione di essere stato un buon cittadino, oltre a quella, principale, di maestro della commedia, gli verrà assegnato nel 1953 l’Oscar alla carriera.

Gli eventi principali, che aprono e chiudono la 43a edizione delle Giornate, sono all’insegna del western, il genere identificativo del cinema e della cultura degli Stati Uniti nel Novecento. Dicendo western diciamo John Ford, ed è lui infatti il regista di 3 Bad Men (I tre birbanti), del 1926, il suo ultimo western muto. Già in questo film emerge una delle caratteristiche della poetica fordiana e cioè la simpatia che manifesta nei confronti degli outsider, qui i tre “birbanti” del titolo, quando questi dimostrano di possedere un tale senso dell’onore da sacrificare in nome di esso anche la propria vita. Per 3 Bad Men, in programma sabato 5 ottobre al Teatro Verdi di Pordenone, sarà Timothy Brock a dirigere, nell’esecuzione della sua partitura, l’Orchestra da Camera di Pordenone.

Il western scelto per la chiusura di sabato 12 ottobre (replica pomeridiana domenica 13) è The Winning of Barbara Worth (Sabbie ardenti, 1926) diretto da Henry King, che vede accanto ai protagonisti Vilma Bánky e Ronald Colman, nel suo primo ruolo importante, Gary Cooper. Da un punto di vista tecnico, da sottolineare l’uso di una nuova pellicola pancromatica utilizzata dal direttore della fotografia George Barnes e dal suo assistente Gregg Toland, futuro operatore di Citizen Kane (Quarto potere) e gli effetti speciali di Ned Mann, che verranno analizzati nella Jonathan Dennis Memorial Lecture di Craig Barron, premio Oscar nel 2009 per gli effetti speciali del film di David Fincher Il curioso caso di Benjamin Button. Per The Winning of Barbara Worth le Giornate hanno commissionato a Neil Brand una nuova partitura musicale che verrà eseguita in anteprima dall’Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Ben Palmer.

L’evento musicale di mercoledì 9 ottobre è il film francese La Sultane de l’amour (La sultana dell’amore, 1919), regia di Charles Burguet e René Le Somptier, presentato con accompagnamento speciale. Il film, una risposta della rinata cinematografia francese allo strapotere del cinema americano, ebbe un grande successo per la spettacolarità e per i suoi meriti artistici che ben ricreavano l’ambientazione orientalista da Mille e una notte. Proprio in virtù di una generale positiva accoglienza, del film fu messa a punto una nuova distribuzione nel 1923 in una versione leggermente più breve e interamente colorata a mano.

LE RETROSPETTIVE
L’attenzione delle Giornate è rivolta non solo alle cinematografie americana ed europea ma anche a quelle di realtà meno conosciute e non per questo meno interessanti. Al contrario, uno sguardo su Paesi considerati periferici dall’ottica occidentale permette di entrare in contatto con culture, costumi e visioni del mondo che altrimenti risulterebbero lontane e aliene. Il focus di quest’anno è puntato sull’Uzbekistan e sull’America Latina, quest’ultima rassegna curata da Paolo Tosini, che ha compilato un programma di 25 titoli provenienti da 16 archivi di 10 nazioni diverse: Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Messico, Perù, Paraguay e Uruguay. Si tratta di materiali eterogenei, lungometraggi di finzione, cortometraggi, home movies, documentari, cinegiornali, che testimoniano il diverso grado di sviluppo dell’industria cinematografica nei vari paesi. Per quelli più esposti all’influenza occidentale (Argentina e Brasile hanno accolto milioni di emigranti arrivati in gran numero anche dall’Italia), la retrospettiva offre l’occasione di capire quanto questa influenza abbia condizionato le espressioni culturali dei diversi paesi e quali tra questi abbiano saputo conservare caratteristiche più specificamente locali.

La rassegna sul cinema dell’Uzbekistan, organizzata dal National Film Fund dell’Uzbekistan con la collaborazione dell’Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (Fondazione per lo sviluppo dell’arte e della cultura dell’Uzbekistan), mette in evidenza il contrasto fra una società ancorata a tradizioni secolari di origine religiosa e lo sforzo del nuovo regime sovietico di spazzar via tutto ciò che veniva considerato reazionario e ostacolo alla costruzione del nuovo ordine sociale. Se il primo film della cinematografia della Repubblica Sovietica di Bukhara, Il minareto della morte, presente in rassegna, è un film d’azione impregnato di esotismo, ben presto la tendenza imposta dal regime sovietico privilegerà altre tematiche, più consone ai dettami ideologici socialisti. I film proposti riflettono puntualmente le contraddizioni di un Paese in bilico tra passato e presente, di una cinematografia che necessariamente si doveva appoggiare a strutture e tecniche avanzate come quelle del cinema sovietico ma che non poteva ignorare il gusto del pubblico per racconti e leggende legati alla storia del Paese. La retrospettiva delle Giornate, con le rare immagini dell’ultimo Khan di Khiva, testimonia anche che il cinema in Uzbekistan era arrivato prima dell’annessione all’Unione Sovietica e le cronache riportano notizia che le prime proiezioni avvennero a Tashkent poche settimane dopo quella parigina dei fratelli Lumière.

Un altro punto forte dell’edizione 2024 è l’omaggio a Giacomo Puccini, nel centenario della morte, con la proiezione de La Bohème di King Vidor, del 1926, con Lillian Gish eccellente interprete di Mimì. Oltre che protagonista, l’attrice fu l’artefice produttiva del progetto avendo per contratto ottenuto il diritto all’ultima parola su tutte le scelte artistiche, a cominciare dalla scelta del regista e del protagonista maschile, il Rodolfo di John Gilbert. Le scenografie di questa Bohème sono di Arnold Gillespie e Cedric Gibbons ma vi collaborò – seppur non accreditato – Ben Carré, e questo ci rimanda a un’altra sezione del programma.
La rassegna dedicata a Ben Carré, curata da Thomas A. Walsh (vincitore nel 1999 di un Emmy Award per le scenografie della serie Buddy Farro e candidato nel 2005 e 2006 per Desperate Housewives, serie trasmessa con successo anche in Italia), propone una dozzina di film e copre un arco di tempo dal 1907 al 1930: dai film di Carré alla Gaumont per la regia di Louis Feuillade, come Le Huguenot (Ugonotto) e La mort de Mozart, entrambi del 1909, al periodo americano con molti registi importanti, soprattutto Maurice Tourneur, anch’egli arrivato dalla Francia, con il quale Carré formò un’affiatata coppia artistica. Dei film realizzati insieme a Tourneur si vedranno anche due titoli che raramente vengono proiettati, Trilby del 1915 e The Blue Bird (L’uccello azzurro) del 1918.

La rassegna sul cinema dell’Uzbekistan, organizzata dal National Film Fund dell’Uzbekistan con la collaborazione dell’Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (Fondazione per lo sviluppo dell’arte e della cultura dell’Uzbekistan), mette in evidenza il contrasto fra una società ancorata a tradizioni secolari di origine religiosa e lo sforzo del nuovo regime sovietico di spazzar via tutto ciò che veniva considerato reazionario e ostacolo alla costruzione del nuovo ordine sociale. Se il primo film della cinematografia della Repubblica Sovietica di Bukhara, Il minareto della morte, presente in rassegna, è un film d’azione impregnato di esotismo, ben presto la tendenza imposta dal regime sovietico privilegerà altre tematiche, più consone ai dettami ideologici socialisti. I film proposti riflettono puntualmente le contraddizioni di un Paese in bilico tra passato e presente, di una cinematografia che necessariamente si doveva appoggiare a strutture e tecniche avanzate come quelle del cinema sovietico ma che non poteva ignorare il gusto del pubblico per racconti e leggende legati alla storia del Paese. La retrospettiva delle Giornate, con le rare immagini dell’ultimo Khan di Khiva, testimonia anche che il cinema in Uzbekistan era arrivato prima dell’annessione all’Unione Sovietica e le cronache riportano notizia che le prime proiezioni avvennero a Tashkent poche settimane dopo quella parigina dei fratelli Lumière.

Un altro punto forte dell’edizione 2024 è l’omaggio a Giacomo Puccini, nel centenario della morte, con la proiezione de La Bohème di King Vidor, del 1926, con Lillian Gish eccellente interprete di Mimì. Oltre che protagonista, l’attrice fu l’artefice produttiva del progetto avendo per contratto ottenuto il diritto all’ultima parola su tutte le scelte artistiche, a cominciare dalla scelta del regista e del protagonista maschile, il Rodolfo di John Gilbert. Le scenografie di questa Bohème sono di Arnold Gillespie e Cedric Gibbons ma vi collaborò – seppur non accreditato – Ben Carré, e questo ci rimanda a un’altra sezione del programma.

Restando ai grandi personaggi, spicca nel programma del festival anche il nome di Anna May Wong, la prima star cino-americana di Hollywood. Nel cinema americano asiatici, neri, indiani e latini all’epoca erano relegati a ruoli marginali, spesso negativi, e Wong dovette lottare molto per imporsi, spesso ottenendo meno di quanto il suo fascino e la sua bravura avrebbero meritato. Dalla fine degli anni Venti, per un decennio la sua carriera si divise tra Europa (Francia e Germania) e Stati Uniti, proseguendo nel cinema sonoro (la sua ultima apparizione cinematografica è del 1960 e nel corso degli anni Cinquanta frequentò anche la televisione). Alle Giornate vedremo due film del periodo americano, Dinty del 1920 (con le scene di Ben Carré) e Driven from Home del 1927, e due produzioni anglo-tedesche, May Song, la bambola di Shangai del 1928 e Fior d’ombra del 1929, entrambi diretti da Richard Eichberg. Ignorata per troppo tempo dopo la morte avvenuta nel 1961 all’età di 56 anni, finalmente oggi Anna May Wong è diventata oltre che un’icona di stile e talento, anche simbolo della lotta contro stereotipi razziali e di genere in tutto il mondo. Negli ultimi anni è entrata nella cultura popolare con la Barbie da collezione a lei dedicata e il suo volto appare su oltre 300 milioni di monete di un quarto di dollaro: un doveroso, seppur tardivo, riconoscimento del suo status di attrice americana a pieno titolo.

Tra i classici proposti nella sezione del Canone, spiccano i nomi di alcuni grandi maestri. Come il danese Carl Theodor Dreyer con Pagine dal libro di Satana del 1921, sua seconda regia, una produzione estremamente ambiziosa e costosa divisa in quattro capitoli corrispondenti ad altrettanti periodi storici (la Gerusalemme del tempo di Gesù, la Spagna dell’Inquisizione, la Rivoluzione francese, l’invasione sovietica della Finlandia) nei quali Dreyer individua la presenza del Maligno nella storia umana. Paragonato spesso a Intolerance di Griffith soprattutto nell’uso del montaggio, il film di Dreyer rimane una prova di altissimo valore artistico e di grande potenza espressiva.
Con Three Women (Tre donne), del 1924, si torna alla grande commedia di Ernst Lubitsch con un formidabile trio di attrici: Pauline Frederick, May McAvoy e Marie Prevost. Restando nell’ambito della commedia, ecco un altro maestro di Hollywood, Cecil B. DeMille, il cui nome è generalmente associato a grandi kolossal, con Chimmie Fadden Out West, del 1915. Il film riprende le storie di un simpatico immigrato irlandese che avevano avuto molto successo sul quotidiano The New York Sun alla fine dell’Ottocento (e poi raccolte in un libro), ed è il seguito di un altro episodio, sempre di DeMille, di cui oggi non rimangono che pochi frammenti.

Gli altri film del Canone sono Raskolnikov (1923), un adattamento di Delitto e castigo firmato dal regista tedesco Robert Wiene che rilegge in chiave espressionista il romanzo di Dostoevskij. La partitura originale del film è opera di Richard Siedhoff che a Pordenone ne eseguirà dal vivo la versione per pianoforte.
Con Sorok Pervyi (L’isola della morte, URSS 1926) si torna a porre attenzione sull’opera di Yakov Protazanov, vero anello di congiunzione tra il periodo prerivoluzionario e quello sovietico. E infine il cinema italiano, che è presente nel Canone con Rapsodia satanica, concepito nel 1915 ma a causa dell’entrata in guerra dell’Italia uscito nelle sale nel 1917. Il film di Nino Oxilia si inserisce nel filone del cinema d’arte, punto d’incontro tra poesia, arti plastiche e musica, quest’ultima commissionata all’epoca a Pietro Mascagni. Rapsodia satanica è passato alla storia anche per l’interpretazione di Lyda Borelli che dà vita sullo schermo a un ideale di femminilità liberty e dannunziana.

Per la serie dei graditi ritorni è da segnalare la serata di venerdì 11 ottobre, dedicata all’attrice ceca Anny Ondra, famosa per aver lavorato in due film di Hitchcock; quello muto, The Manxman (L’isola del peccato), fu l’evento che chiuse con grande successo l’edizione delle Giornate di due anni fa. Nel 1928, l’anno prima del film con Hitchcock, Ondra fu la protagonista di Saxophon-Susi (Miss Saxophone) – presentato quest’anno nella sezione dei Ritrovamenti e restauri – in cui è diretta da Carl Lamač, suo pigmalione e marito, con il quale ebbe una lunga relazione artistica che continuò anche dopo il loro divorzio.
Spazio alle donne con il programma di 28 frammenti femministi, divisi in 3 sezioni, con immagini di intimità femminili, di gioia, di gioco, di divertimento e ribellione provenienti da archivi di tutto il mondo, compresi India e Thailandia.

Com’è accaduto più volte nelle precedenti edizioni del festival, molto spesso guardando le immagini del passato si innestano imprevisti cortocircuiti con il presente e nei temi e nelle storie raccontate dal cinema muto troviamo sorprendenti analogie che stupiscono o fanno riflettere. È sicuramente il caso del film The Land of Promise, del 1924, che inevitabilmente ci porta sullo scenario della tragedia in corso in Medio Oriente. Il regista è Ya’acov Ben Dov, nato in Ucraina e emigrato in Palestina nel 1907, esponente del movimento sionista che si prefiggeva di dare una terra al popolo ebreo. Grazie all’eccezionale restauro dell’archivio di Praga che valorizza la bellezza visiva del film con gli affascinanti colori per imbibizione riprodotti dalla copia originale in nitrato del Museo Ebraico di Praga, siamo in grado di apprezzare i meriti artistici di Ben Dov ma anche di considerare quanto questo progetto rischi di sconfinare nella propaganda.

Dalla Cineteca del Friuli, organizzatrice con Cinemazero delle Giornate del Cinema Muto, proviene e viene presentato in prima mondiale il restauro di The Perl of the Ruins, un piccolo film del 1921 probabilmente commissionato dal Lloyd Triestino per scopi promozionali. La trama è piuttosto insignificante; l’aspetto interessante è l’ambientazione con i palazzi, le strade, le piazze di Trieste, i cantieri e le navi della compagnia di navigazione, che fanno dimenticare rapidamente l’intreccio della storia per concentrarsi sul lato documentaristico. Il restauro è stato realizzato in collaborazione con l’Archivio Vitrotti.

Da Trieste ci si sposta all’estremo sud dell’Italia, in Sicilia, con una rassegna curata da Elena Beltrami della Cineteca del Friuli e Gabriele Perrone del Museo del Cinema di Torino che inaugura un progetto pluriennale dedicato alle regioni italiane. Grazie alla collaborazione di altri archivi italiani, europei e sudamericani, i curatori hanno costruito un ampio programma di “dal vero” suddiviso per temi: paesaggio; arti, mestieri e attualità; vulcano, terremoto e tempeste (da ricordare le storiche riprese di Luca Comerio pochi giorni dopo il terremoto di Messina del 1908). Completa il quadro della sezione un unico film di finzione, di produzione francese e raramente proiettato, L’appel du sang (La voce del sangue, 1919) per la regia di Louis Mercanton, ambientato a Taormina e interpretato dal grande attore Ivor Novello, che debuttò nel cinema proprio con questo film.

Nella sezione del cinema delle origini abbiamo l’occasione di seguire, in copie finalmente buone, i primi passi nel cinema di David Wark Griffith, nel 1908 alla Biograph, dove rimarrà cinque anni. Grazie al progetto Biograph della Library of Congress, titoli che non erano disponibili o lo erano solo in copie a 16mm molto sbiadite, ora si possono vedere in alta qualità dopo il restauro delle “paper prints”, le copie su carta. In questi primi film brevi Griffith spesso faceva anche da spalla a Mack Sennett e a questo proposito è divertente ricordare che il suo più celebre collaboratore, il direttore della fotografia Billy Bitzer, scrisse che a giudicare da come l’aveva visto recitare mai avrebbe pensato che sarebbe diventato così importante.

Come da una cornucopia cinematografica, i tesori del cinema muto sembrano non avere fine. Ecco la sezione sui documentari naturalistici svedesi con l’opera dei film di avifauna di Bengt Berg, figura nota e apprezzata a livello scientifico, ma controversa per la simpatia dimostrata verso la Germania nazista. Negli anni Venti si affermano i film etnografici di Erik Bergström e del cineoperatore Gustaf Boge sugli indigeni Sami e sulla loro lotta con una natura ostile che richiamano alla memoria le immagini del più famoso Robert Flaherty considerato universalmente il padre del documentarismo cinematografico.

Il programma dell’EYE Filmmuseum sullo Studio Joris Ivens e il Centro di Tecnica Filmica presenta otto cortometraggi realizzati tra il 1929 e il 1934 con lo scopo di promuovere l’arte cinematografica nella sua forma più pura e autonoma in opposizione al cinema commerciale di stampo hollywoodiano. Nei primi anni Trenta il Centro, fondato ad Amsterdam da Ivens e da un gruppo di artisti ed intellettuali nel 1927 come cineclub, divenne in breve tempo il quartier generale dell’avanguardia olandese, ma già intorno al 1935, anche a causa dei sempre più frequenti periodi che Ivens trascorreva all’estero, cominciò a sfaldarsi; molti dei reduci di quell’esperienza continuarono però a svolgere un’importante attività didattica per la formazione di giovani cineasti.

Leggenda vuole che nelle prime edizioni delle Giornate alcuni critici avessero riconosciuto attori e attrici pronunciandone ad alta voce il nome al loro apparire sullo schermo. Contando sulla massima concentrazione a Pordenone di storici e archivisti, su proposta dell’EYE il festival da quest’anno lancia una nuova sezione dal significativo titolo di “Sine nomine”: si vedranno 14 brevi film e frammenti, ciascuno con il proprio numero di riferimento e provenienti da sei cineteche, nella speranza che possano essere identificati. Per gli eventuali vincitori non sono previsti premi, ma d’altra parte cosa può esserci di più appagante per un cinephile dell’identificazione di un film?

Le Giornate del Cinema Muto sono realizzate grazie al sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, del Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, del Comune di Pordenone, della Camera di Commercio Pordenone-Udine e della Fondazione Friuli.




Condividi