CRONACHE DALLA POLTRONA “KRIPTON” – ma davvero Superman è un “matto” (neurodivergente)?

Serata sold-out in Sala Pasolini a Cinemazero nell’ambito del programma di anteprime del Pordenone Docs Fest (Festival molto sfizioso in programma ad aprile!).

È stato proiettato il film (documentario) “Kripton” di Francesco Munzi presente in sala e accompagnato a fine film da una (SPOILER!) commossa e grata dottoressa Antonella Vio, che si è fortemente identificata nella narrazione sullo schermo, psichiatra responsabile del Centro di salute mentale 24h di San Vito al Tagliamento.

Nel grande casino delle varie personalità a volte (molto) scomposte e nella giungla dei disturbi mentali e degli stati d’animo che si divertono a giocare a rimpiattino, Francesco Munzi ci regala un documentario dal respirone cinematografico che è un vero balsamo per l’anima.

“Kripton”, è come una specie di incrocio tra una cassata siciliana e un Ferrero Rocher che, sotto una spessissima e morbidosa scorza deliziosamente candita da documentario narrativo racchiude un cuore croccante fortemente osservazionale, e ci catapulta con dolcezza mai mielosa o compassionevole nel complesso mondo di sei giovani, ventenni e trenta-quarantenni, affetti da malattia mentale. (E della loro: mamma, sorella, papà, fratello, moroso… però amici no, non se ne vedono…)

Krypton (con la y) è il pianeta (di Superman) da cui proviene Marco Antonio che si dichiara ebreo senza esserlo, uno dei protagonisti (“È lontano dalla Terra, sì, ma non è così lontano”).

Qui risiede tutta la dolcezza, la delicatezza e il grande mestiere di Munzi e della sua troupe ristrettissima che giorno dopo giorno, prima con incontri preliminari di svariati mesi e poi in 100 giorni di riprese in due comunità terapeutiche ai bordi della Capitale (nel film appaiono come un’unica entità) a cavallo dell’inverno-primavera del 2022 ci restituisce un emozionante e istruttivo affrescone fresco fresco dello “stato dell’arte” della malattia mentale in Italia.

La cosa bella è che i “matti” quasi si autoraccontano in un fluire costante di rappresentazioni “spontanee” e nel corso del film non possiamo non volere tanto tanto bene a Benedetta, Dimitri, Marco Aurelio, Georgiana, Silvia e Okana, e ai loro familiari, che a volte non ce la fanno più e sbroccano di brutto, e ai terapeuti che lavorano diuturnamente con la parola, con l’uso paziente e tenace delle parole che curano e che cominciamo a vedere in faccia solo verso la fine del film. (Medicine se ne vedono poche, sigarette tante).

Il documentario esce nell’anno del centenario di Franco Basaglia, da Trieste fu ispiratore della rivoluzionaria legge 180 sulla salute mentale che, dal 1978, impose la chiusura dei manicomi (l’Italia è ancora una delle uniche nazioni al mondo ad averli aboliti) e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.

Munzi affronta la malattia mentale delicatamente e amorevolmente ma senza sconti, c’è tanta umanità dolorosa, dolorante e incazzata e desolata nella lotta contro disturbi della personalità.

Il disagio mentale, invece di essere una sfiga di cui vergognarsi, da nascondere e sotterrare, diventa condivisione, responsabilità, empatia, conoscenza e ci fa a tratti ridacchiare o piangere, di sicuro ci fa riflettere in maniera spontanea e da pari a pari.

Lo stesso autore ci ha detto che lui si è messo “a fianco” dei ragazzi per raccontarli, e questo emerge effettivamente anche dalle numerose inquadrature di profilo e in primo piano.

Vi è pure un interessante uso contrappuntistico e rarefatto di materiale d’archivio tipo home movies e filmini sperimentali retro in funzione poetica e le musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia contribuiscono non poco allo sprint narrativo sottolineando e a volte guidando il mood di alcune scene dialogate e non.

Nella chiacchierata post proiezione, Munzi sottolinea che il film non vuole dimostrare alcuna tesi aprioristica, ma vuole farci vivere spontaneamente queste vite rompendo il tabù isolazionista e rimuovente che aleggia attorno ai disturbi mentali. Permane una riflessione sulla difficoltà di dare verità assolute, e viene rimarcata la grande grande importanza di parlare, di stare insieme e di condividere.

“Difficile mondo”, dice Okana, una delle ragazze nel documentario, rivolta al suo psichiatra (tenerone!), ella è una giovane nerona africana ossessiva-compulsiva dal bel viso tondo, dagli occhi grandi grandi e scuri e dai labbroni languidissimi che si dischiudono in un dolcissimo sorriso <3.
Intanto là fuori la primavera è arrivata e la vita, anche se a volte non sembra, progredisce per davvero, e forse… non è poi così tutta da buttare.

Pasqualino Suppa




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