Il termine epidemia designa un flagello che si abbatte su un popolo. Da quando esiste l’uomo, le epidemie non sono mai state una novità.
Nei tempi più recenti sono stati chiamati con diversi nomi, il vaiolo, il colera, la meningite, la peste bubbonica, l’influenza spagnola, il tifo, provocando migliaia di morti. Ricordo quando mia nonna materna mi raccontava di aver perso tre figli per la spagnola.
In questi giorni, spesso ho pensato a lei e alle tante persone che, come lei, perdevano i propri cari, parenti, amici, giovani, vecchi, rimanendo da soli a fronteggiare la durezza della vita. Una generazione questa che oggi, sicuramente, non avrebbe capito il perché, per ogni cosa, dobbiamo aspettare che si pronuncino gli esperti, la scienza medica, gli psicologi, gli algoritmi. Sappiamo troppo poco di Covid-19.
Non ne conosciamo la vera mortalità a causa delle incertezze sul numero totale di infetti. Non sappiamo quanti di coloro che sono morti sarebbero morti comunque – forse un po’ più tardi – a causa di altre patologie. Ciò che è chiaro è che Covid-19 non è la l’influenza spagnola.
È pericolosa per chi soffre di gravi condizioni mediche, soprattutto se è anziano. Inoltre, i ricercatori sono dell’avviso che per avere un vaccino sicuro, che non solo curi la malattia ma, specialmente, non nuoccia alla salute della persona, bisogna aspettare più di un anno. Questo tempo non possiamo viverlo stando a casa a deprimerci.
I vari esperti invitano le persone a fare della propria casa l’intero mondo; deve essere palestra per fare ginnastica, luogo di lavoro, di studio, degli hobbies, di quarantena, degli arresti domiciliari, di cura, di assistenza ai disabili, spesso in uno spazio di cinquanta metri quadri. Io non sono un ricercatore ma so come le persone prima si deprimono e poi si suicidano.
Io so che il corpo umano non è fatto per sostenere alti livelli di stress per un tempo prolungato.
La “detenzione domiciliare” a tempo indeterminato delle persone, sane e malate, l’isolamento sociale che continuerà per il timore che ogni incontro con l’altro potrebbe essere fatale, non farà altro che produrre negli individui un forte stress e, quindi, un aumento di cortisolo, ovverossia alti livelli di zuccheri nel sangue (iperglicemia) che promuovono l’insulinoresistenza (la scarsa sensibilità delle cellule all’assorbimento del glucosio che rimane quindi a livello ematico), l’abbassamento delle difese immunitarie, perdita di massa minerale ossea, diminuzione della funzione tiroidea, irritabilità, ansia e depressione.
Il prolungato isolamento sociale, la perdita di dignità, la perdita della speranza, la perdita del lavoro, la perdita di fare le cose con entusiasmo, la perdita della cura di sé sono i segnali di una grave forma di depressione. Ogni persona, quando vede un depresso, non fa altro che dirgli di “darsi una mossa”, di uscire di casa, di godere della natura, di viaggiare, di incontrare gli amici, di dedicarsi a qualche interesse, di fare qualcosa per il proprio corpo (parrucchiere e estetista) di fare dello sport.
Oggi, la ricerca medica ci chiede tempo, un tempo valido per i laboratori, per le industrie farmaceutiche per produrre un vaccino, praticamente, inconsapevolmente, ci sta chiedendo di vivere da depressi cronici e in un mondo di paura. La paura è la nemica della ragione ed è contagiosa. In meno di due mesi ci siamo abituati a non avvicinarci all’altro, a non toccarci più, a vederci con sospetto, comportamenti che il cervello, che non è la mente, ha già registrato e fatto diventare abitudini, stile di vita.
In tutto questo non sappiamo come i bambini stanno vivendo le limitazioni degli affetti, le ansie dei genitori, le paure e quali conseguenze avranno queste nel loro sviluppo. Per quel poco che sono riuscito a sapere, molti bambini sono diventati irritabili, nervosi, aggressivi, timorosi fino a raggiungere forme di regressione con episodi di enuresi e di encopresi.
Ma questo non è un problema degli scienziati, loro possono aiutarci a valutare le conseguenze cliniche dei diversi modi di contenere il coronavirus, ma non possono dirci come affrontare la perdita del lavoro, la disperazione, la perdita di un proprio caro, la rabbia per aver perso la propria azienda, per aver messo sul lastrico centinaia di famiglie, costringendole a chiedere i buono pasto ai servizi sociali del Comune o alla Caritas, umiliando la loro dignità è uccidendo i loro sogni e le loro speranze.
Antonio Loperfido, psicologo e psicoterapeuta