L’inflazione spaventa i mercati. I dati USA sorprendono in negativo, Borse in discesa e tassi in salita

MERCATO AZIONARIO

Dopo i fasti di gennaio e due settimane di consolidamento, in questa ottava i mercati probabilmente speravano, anche con prudenza e senza precipitose fughe in avanti, di poter riprendere il tono positivo di inizio anno. Invece devono fare i conti con i fantasmi del 2022 che solo temporaneamente si erano allontanati dai sogni degli operatori, tornando a tormentarli con una settimana di segni meno generalizzati, tanto sul mercato azionario che su quello obbligazionario. La fragilità delle due asset class si manifesta, quindi, nuovamente, in forma congiunta, offrendo pochi ripari (solo il Dollaro sostanzialmente, visto che le materie prime hanno anch’esse ripiegato) e lasciando interrogativi sul resto dell’anno. I fantasmi sono ancora quelli dell’inflazione che sia in Europa che negli USA continua a rivelarsi difficile da sradicare, se non nelle componenti acicliche ma non in quelle principali (componente ‘core’). Il problema è che un guaio come un’inflazione fastidiosamente alta è un problema non da poco sia per l’economia, che soffre per la perdita di potere d’acquisto e per l’indebolimento della crescita, sia per i mercati finanziari, non attrezzati a gestire la conseguenza numero uno della situazione in corso, ossia tassi più alti e più a lungo per debellare il vulnus in corso.

Assieme ai timori per l’inflazione, si sentono i passi dell’altro tema in agguato, ossia il deterioramento economico, anche qui con evoluzioni tutte da prevedere e relative sia al calo degli utili per le aziende sia all’aumento degli spread di credito per le emissioni obbligazionarie.

La settimana macro è passata attraverso vari step, con dati che in primo luogo hanno delineato il persistere dell’inflazione nell’Eurozona, con valori a gennaio che restano su livelli record e che non hanno centrato le attese di una graduale riduzione. Con un +8,6% annuale e relativo all’intera area difficile pensare a stop nel rialzo tassi, visto il gap che ancora intercorre e che quindi prelude a ulteriori aspre strette. Certo, il valore è in discesa rispetto a dicembre ma la persistenza in alcuni ambiti (servizi) e in alcune aree (Germania) fa pensare che la BCE considererà questo un pretesto per evitare un effetto generale (ex. salari).

Il peggio però della settimana è arrivato venerdì, con il dato relativo al PCE core (consumi e redditi personali), uno degli indicatori core più considerati dalla Fed: un +0,6% mensile a gennaio (vs +0,4% atteso) e un valore che su base annua si attesta al +4,7% (sopra le attese di +4,4% e, peggio, anche sopra al valore di dicembre). Per non far mancare nulla al pessimo venerdì macro, il GDP americano ha deluso, con un +0,3% rispetto ad un +0,5% atteso (rispetto al IV° trimestre 2021).

La fragilità vista sul piano macro si è istantaneamente concretizzata anche sui mercati finanziari, con le borse che, da un lato, hanno riapprezzato un contesto dove il tightning delle banche centrali rimane un elemento con cui fare i conti (“Don’t Fight the Fed”) e, dall’altro, hanno cominciato a realizzare che il bel sogno di gennaio probabilmente rimarrà tale, almeno per un po’. La crescita con poca inflazione, ossia tutti gli anni tra il 2010 ed il 2020, è quindi uno scenario a cui forse non si arriverà presto mentre vanno tenuti sotto controllo gli aspetti che riguardano anche il motore vero degli indici di borsa.

Occorre quindi una reazione immediata per non far ripetere l’esperienza della scorsa estate dove l’illusione dei rialzi di luglio/inizio agosto si era poi scontrata con la durezza delle parole di Powell a Jackson Hole. Se l’S&P ha sofferto (-2,7%) c’è anche chi fa peggio ed è l’indice dei titoli tecnologici, il Nasdaq 100 (-3,1%), piegato al ribasso dal fattore tassi che, come noto, impatta con rilevanza sui titoli ad alta crescita attesa. Non è servito a molto il rialzo infrasettimanale di alcuni titoli del comparto chip (NVIDIA in primis che ha battuto le stime nonostante valori in calo) e al ribasso si sono unite anche le altre nicchie della galassia dei tech (ma non solo). In un contesto di debolezza, una maggiore resistenza è stata mostrata dall’Europa (Eurostoxx -2,2%) ma comunque con passivi che confermano il ritorno del risk-off sull’azionario. Tra i settori ben pochi quelli che hanno visto acquisti, l’Energy ha limitato le perdite (ma era stato pesantemente venduto l’ottava precedente) e i difensivi come il Consumer Staples. Il ‘caro tassi’ non ha salvato invece i finanziari.

MERCATO OBBLIGAZIONARIO

Oltre ai dati macro, la settimana, nel suo pur già ricco menù, ha proposto anche la lettura dei verbali dell’ultimo meeting della Federal Reserve di inizio gennaio. Un meeting che non aveva inferto particolare negatività ai mercati (forse perché già preparati dopo le precedenti batoste) ma che è stato seguito da un impressionante sequenza di dichiarazioni pro-politiche restrittive da diversi membri del FOMC. Ed il mercato obbligazionario aveva già iniziato a sentire puzza di bruciato, intuendo che l’ottimismo riposto inizialmente per una inversione di rotta da parte della FED era destinato a sciogliersi come neve al sole. Per questo motivo, il percorso stimato sui tassi si era fatto già più pressante rispetto allo stesso Dot-Plot (ossia il posizionamento dei diversi governatori sulle scelte di politica monetaria).

Dai verbali è uscito un auspicio di ulteriore inasprimento da attuare per dirigersi verso l’obiettivo di inflazione del 2%.  L’uscita dei dati del PCE ha innescato un ulteriore shift delle attese sui tassi USA: 3 rialzi pieni da 0,25%, arrivo al 5,50%, con poche possibilità di scendere entro fine anno. Poche tracce quindi del pivot ravvicinato che si stimava a gennaio che aveva rilassato tanto il mercato azionario che quello obbligazionario.

In questo contesto la curva USA dei rendimenti è salita su tutte le scadenze, sia quelle brevi che quelle medio lunghe…dopo tutto Powell ha detto ‘higher for longer’. Ecco, quindi, che il decennale americano si è avvicinato nuovamente ancora di più alla soglia del 4% ma fanno impressione i nuovi massimi del rendimento del 2Y, arrivati al 4,81%. In Europa, sempre sulle scadenze decennali, il Bund rimane rialzista in area 2,50% ed il BTP in prossimità del 4,45%.

Ma è sulla parte breve che la somiglianza con gli USA si fa più marcata (Bund 2Y al 3% e BTP al 3,6%): la frusta delle banche centrali si fa sentire eccome su governativi e corporate.

MATERIE PRIME

In ambito materie prime, settimana con ampia dispersione nei diversi segmenti. Il petrolio rimane in un trend imperscrutabile e senza direzione (close invariato a 76$) mentre recupera un po’ il gas (+8%). Settimana pessima per i preziosi, soprattutto argento e palladio ma anche l’oro scende e torna appena sopra 1.800 (-1,7%). Positive solo le soft commodities, interpreti delle tensioni inflattive in ripresa.

MERCATO DELLE VALUTE

Per quanto riguarda le valute, la settimana ha arriso al Dollaro che incorpora tutte le attese di una Fed ancora più agguerrita. Il cross scende a 1,055 e interrompe bruscamente la rivalutazione dell’Euro degli ultimi mesi. Misti gli altri cross con la Sterlina che recupera qualche posizione a causa delle problematiche che anche la Bank of England dovrà affrontare sull’inflazione. Deciso ribasso anche per il Bitcoin (-6%) che ha toccato area 25.000 per poi ritracciare con forza.

Dott. Alessandro Pazzaglia, consulente finanziario Indipendente, www.pazzagliapartners.it




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